martedì 23 febbraio 2010

La ricetta di Fontana: ''Tutta la musica va bene ma se segue un progetto''

NEL 1983, quando era alla guida della Biennale Musica, scatenò un vespaio di polemiche per aver invitato artisti come Brian Eno e Laurie Anderson. Qualche anno dopo, da sovrintendente del Teatro alla Scala (carica che ha ricoperto dal 1990 al 2005), aprì le porte del Piermarini a West Side Story di Bernstein e a Keith Jarrett. E anche lì non mancarono le critiche. Da «laico contrario a ogni fondamentalismo", Carlo Fontana non si scandalizza per la svolta pop del Petruzzelli. Ma con alcune precisazioni. Carlo Fontana, il Petruzzelli sdogana la musica leggera. Che ne pensa? «Prima di tutto è necessaria una premessa. La distinzione tra musica alta e musica bassa, o se preferisce tra musica colta e musica extracolta, non esiste. La differenza sta nella fruizione: c' è l' ascolto consapevole, attento, e c' è l' ascolto passivo che punta all' evasione». Detto questo, che effetto le fa un teatro lirico che ospita Mario Biondi e Antonello Venditti? «Trovo che siano ottimi artisti. Non ho nulla in contrario, a patto che questa scelta si inserisca in un progetto ad ampio respiro. Che identità culturale vuole darsi il Petruzzelli? Vuole essere un luogo dove si produce musica o un contenitore di intrattenimento? Questo è il cuore del problema». Secondo lei quale dovrebbe essere l' identità del Petruzzelli? «Non sta a me dirlo, ma ritengo che, vista la sua storia e il contesto dove è inserito, non sia sbagliato aprire al pop. A condizione però che siano seguiti criteri di qualità anche per quanto riguarda la musica d' uso. E soprattutto che non si tratti di scelte estemporanee pensate solo per fare cassetta». Il sindaco Cacciari sostiene che invece questo è l' unico modo per far vivere i teatri lirici. «Stimo Cacciari ma non sono d' accordo. L' unico modo per far vivere i teatri, e non solo quelli lirici, sono i finanziamenti pubblici. In Italia non si fa altro che tagliare con il risultato che trionfa la cultura della non cultura. Se il Petruzzelli fosse messo nelle condizione di fare opere, concerti e balletti tutte le sere il problema non si porrebbe. E comunque non si fanno quadrare i bilanci con qualche concerto pop una tantum. In questo senso torno a ripetere che l' errore non è ospitare la musica leggera, ma farlo senza un progetto culturale preciso». Ma il pubblico non andrebbe educato anche all' ascolto di musica impegnata? «Certo, ma è anche l' offerta che induce la domanda. E torniamo all' emergenza principale di un paese come l' Italia che sulla cultura non investe, anzi taglia senza nessun riguardo, quando invece la storia ci insegna che il teatro, da sempre, è finanziato: che sia il principe rinascimentale, i privati o lo Stato, poco importa». Quando nel 1983 chiamò alla Biennale Musica Brian Eno, le diedero del trasgressivo. «Me lo ricordo bene, ma quella fu una scelta molto meditata. Volevo dare spazio alla musica di confine e non solo all' avanguardia colta. Esattamente come quando portai West Side Story alla Scala: in una stagione che celebrava il ' 900, quella era un' opera a tutti gli effetti rappresentativa della contemporaneità». Bernstein è una cosa, Baglioni un' altra. Alla Scala l' avrebbe mai invitato? «No, ma non perché non apprezzi Baglioni, che al contrario amo molto. Il motivo è un altro: la Scala fa storia a sé, non è paragonabile a nient' altro. È un simbolo che richiede una cura particolare: bisogna stare molto attenti a non intaccare la sua aura mitica». Uto Ughi ha definito "vergognosa" la svolta pop del Petruzzelli. «Questo snobismo non aiuta ad affrontare la questione. Mi porrei piuttosto un altro problema». Quale? «Ogni musica esige per sua natura un luogo preciso. Nei grandi spazi la musica barocca soffre, così come un concerto rock in un teatro lirico risulta sicuramente penalizzato.
Al Petruzzelli si sono chiesti come risolvere il problema "ambientale"?»

Repubblica — 19 febbraio 2010 pagina 13 sezione: BARI

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