martedì 30 settembre 2014

L'Opera di Roma: una crisi che è la punta dell'iceberg



Sbatti l'orchestrale in prima pagina e insabbia la realtà: la verità sulla triste vicenda del Teatro dell'Opera sembra non interessare la carta stampata. In questi giorni, dall'addio di Riccardo Muti, sui giornali si è assistito a una risibile quanto indegna ricerca di un capro espiatorio fra i lavoratori del Teatro Lirico di Roma. Ma loro non ci stanno, e anche se "chi parla è licenziato", parlano eccome, in una conferenza stampa indetta da Slc Cgil e Fials Cisal, disertata da chi s'affida a servizi giornalistici "per sentito dire".
Parlano e denunciano disagio e degrado, dovuto a un irresponsabile vuoto gestionale, vuoto voluto ad hoc, da un preciso disegno che da vent'anni mira a un abbassamento culturale senza precedenti. Parlano di destrutturazione, di Sovrintendenti che creano "crateri debitori", con l'obiettivo di trasformare "i nostri prestigiosi Teatri in centri di circuitazione al soldo delle Agenzie Internazionali". Denunciano un taglio del personale artistico a fronte di un incremento di quello dirigenziale, motivato solo da un fare clientelare: l'Orchestra manca di 30 elementi, il corpo di ballo è ridotto al 20%. Denunciano la lievitazione del 50% degli appalti relativi al trasporto, al facchinaggio e alle spese per servizi, mentre s'assiste allo smantellamento inspiegabile del magazzino generale e della squadra trasporti. Non solo, i laboratori di scenografia, falegnameria e sartoria sono quasi alla paralisi. E in merito alle scelte artistiche, un aumento di spese immotivate che comportano pessimi risultati, e per rendersene conto basta affacciarsi in sala: il teatro è sempre meno frequentato. Disamore del pubblico e delusione del Maestro Muti, che da sempre denuncia la non volontà politica a sostenere la Cultura in Italia, e al riguardo ci sarebbe da chiedersi cosa ci fanno le banche nei Consigli d'Amministrazione dei Teatri, ché a parlare d'interessi su interessi si finisce nel torbido dell'usura.
I primi a non accettare questa situazione sono proprio i direttori d'orchestra, che non trovano di meglio, dopo le denunce inascoltate, di fuggire all'estero, come Mehta e Noseda. Insomma, l'affaire del Costanzi ci rimanda un'immagine del nostro Paese ben lontana dalla culla di Umanesimo e Rinascimento. Eppure il Teatro dell'Opera, stando a questi uomini e donne che fanno musica, è letteralmente seduto su una miniera d'oro, per il semplice fatto di essere a Roma: guidati da Sovrintendenti capaci, perché "cresciuti in teatro", sarebbe normale fare anche due spettacoli al giorno. Lo dicono convinti, anche se il loro contratto è fermo da dieci anni, e non esitano a mostrare la busta paga, la più bassa d'Europa: 2.100 euro per gli orchestrali e 1.800 euro per i coristi; e si parla di professionisti che hanno superato fior fior di prove a livello internazionale. Invocano una riforma seria, lontana dallo spauracchio della liquidazione coatta entro il 2016, qualora non si raggiunga il pareggio di bilancio, come recita la legge 106; ennesima di una sfilza di leggi che dalla tredicesima legislatura hanno comportato il 40% in meno degli investimenti in Cultura.
E non c'è da sperare nell'ultima "Art Bonus" del ministro Franceschini perché, malgrado il nome, prevede ancora una volta benefici per gli appalti edilizi di restauro. Dal 2005 a oggi, si sono avvicendati ben 6 ministri, ma non è cambiato nessun direttore generale, "e forse fra loro farebbe bene Matteo Renzi a cercare i suoi boiardi". Ricerca che si prospetta dura assai, soprattutto con una stampa connivente, che strumentalizza tre scioperi sacrosanti su venticinque spettacoli, e non riporta i successi e l'accoglienza straordinaria della tournée da Salisburgo a Tokio. Quanto all'Aida, rimandata a gennaio per "prevenire gli scioperi", quasi processo alle intenzioni, ci sarebbe da ricordarne il finale struggente, e chiedersi se i maestri fuggitivi non abbiano preso spunto da lì: "Ah terra addio, addio valle di pianto!". 
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Monica Perozzi
http://www.pontediferro.org/articolo.php?ID=3233

Musical chaos at Radio France amid rumours the maestro has quit


The Orchestre philarmonique de Radio France has declared a strike, starting Thursday, following the forced resignation of its capable and popular artistic director Eric Montalbetti.
The musicians are protesting – this reads much better in French contre “les méthodes brutales employées par la nouvelle direction de Radio France qui ont forcé leur directeur artistique à la démission”. 
We understand that the music director, Mikko Franck, had a two-hour conversation over the weekend with the director general of Radio France. It appears there is a plan to merge two radio orchestra, the Philharmonique and the National.
Franck promptly withdrew from the forthcoming concerts. We are trying to clarify whether he has resigned altogether.
Either way, chaos is probably an understatement.


http://slippedisc.com/2014/09/breaking-musical-chaos-at-radio-france-amid-rumours-the-maestro-has-quit/

lunedì 29 settembre 2014

Rustioni lascia la direzione musicale del Petruzzelli

Replica sovrintendente,risparmi necessari a sopravvivenza teatro


(ANSA) - BARI, 27 SET - Con una lettera di critica alla "strategia del risparmio" nella gestione del teatro Petruzzelli di Bari e al "disinteresse" della politica, il direttore musicale del teatro, Daniele Rustioni, ha comunicato la sua intenzione di lasciare l'incarico alla scadenza del contratto, nel gennaio 2015. Dura la replica del sovrintendente, Massimo Biscardi che precisa, i tagli faranno chiudere in pareggio il bilancio 2014 e sono necessari alla sopravvivenza del teatro.


   

giovedì 25 settembre 2014



Ecco chi ha cacciato Riccardo Muti

A cacciare Muti dal podio dell'Opera di Roma non sono stati gli scioperi degli orchestrali, "esempi di un corporativismo deleterio" come alcuni giornalisti liberi – e della sinistra illuminata – vogliono farci credere, ma le responsabilità di chi, invece di migliorare la qualità dell'offerta musicale, vuole precarizzare il teatro italiano e tutto il settore culturale, abbassando oltre ogni limite il livello artistico delle programmazioni e rendendo del tutto impossibile (e sconveniente) per uno dei più grandi Maestri al mondo salire sul podio e dirigere con serenità.


Ecco chi ha cacciato Riccardo Muti.
Leggendo le opinioni di Filippo Facci nel suo ultimo e sprezzante articolo contro quelli che chiama i “Cobas del violino” non mi sono affatto stupito di un tono così canzonatorio da parte del giornalista di Libero. Le sue invettive, in fondo, non fanno che cercare il consenso di una grande fetta di italiani e probabilmente di tutti i suoi lettori. Critiche riassumibili brevemente così: gli orchestrali sono tra le categorie più pagate e privilegiate al mondo, non lavorano o lavorano pochissimo, prendono indennità ingiustificate e per di più criticano la spending review del bravo Sovrintendente (tanto che persino il bravo Sindaco se n’è dovuto lamentare). Napalm sui sindacati è, infine, l’elegante chiusura del suo articolo spumeggiante.
Non mi sono stupito, anche perché sono stato a contatto per anni con il mondo della musica, come studente e come appassionato, e so perfettamente quanti ostacoli un aspirante musicista in Italia trovi sul suo cammino professionale. I conservatori fatiscenti, gli insegnanti di istituti di “alta formazione” che sono del tutto inadeguati al loro ruolo, la maxi truffa che ha voluto equiparare i conservatori alle università con l’unico obiettivo di estorcere cifre esorbitanti agli studenti abbassando in maniera vergognosa il livello della formazione accademica, la soppressione delle orchestre, i licenziamenti, i pensionamenti a cui non sono seguiti regolari concorsi con l’intento palese di rendere sempre più precario il ruolo dell’orchestrale, ovvero di ciò che dovrebbe essere il più alto grado dell’eccellenza musicale.
Nemmeno ciò mi stupisce, ad essere sincero, e questo perché sono nato e cresciuto in Italia, un paese che ha progressivamente distrutto la sua storia musicale, e aggiungerei culturale, con metodo. In Italia non c’è spazio per la musica di qualità, e non si ha la minima intenzione di rendere le orchestre al pari di quelle mondiali, di dare strumenti formativi competitivi a livello internazionale ai giovani, di salvaguardare il nostro patrimonio. Il Patrimonio, che non è un elenco polveroso di opere in repertorio da rappresentare allo sbarco di turisti inesperti, dopo il caffè e prima della pizza. Il Patrimonio è (dovrebbe essere) la maniera in cui i brani e le opere vengono suonate. I Berliner, che dopo Karajan hanno scelto Abbado alla loro guida, ci hanno messo decenni per diventare la più grande orchestra del mondo. E questo perché hanno incessantemente lavorato sull’interpretazione, sul “suono berliner”, sul loro modo di leggere e interpretare i capolavori, sotto la guida di grandi direttori.
Come può un’orchestra tentare di arrivare all’eccellenza, pensare di raggiungere punte massime di qualità interpretativa se il suo organico viene dimezzato, se non viene pagata (perché, per chi non lo sapesse, i contratti nazionali prevedono paghe da impiegati delle poste, quando i soldi arrivano…), se mancano le seconde parti, se il 30% dei musicisti viene assunto a progetto con contratti precari? Come può un violinista, o un trombonista, essere davvero fautore e partecipe del “suono” di quell’orchestra, se con quell’orchestra non ci ha mai suonato prima? Se è lì solo da una settimana e probabilmente con quell’orchestra non ci suonerà mai più? Come può essere all’altezza di un direttore (giustamente) esigente se con quell’orchestra non ha affrontato un percorso di crescita?
Pensate al gioco del calcio. L’orchestra è come un club. C’è un allenatore di grande talento, come lo era Muti a Roma. Ma come può l’allenatore portare alla vittoria i suoi ragazzi se non ci sono i soldi per pagare i giocatori, se i giocatori cambiano in continuazione, se non c’è il tempo e la tranquillità di allenare e plasmare i calciatori al suo pensiero musicale? Ed è questo che il Maestro Muti voleva intendere nella sua lettera al Sovrintendente, in cui parlava di mancanza di “serenità” necessaria al buon esito delle rappresentazioni. Chi dà la colpa agli orchestrali o finge di non capire il baratro in cui ci stiamo cacciando, o è in cattiva fede.
Non si può credere di rilanciare l’Italia tagliando indiscriminatamente, come da troppi anni si fa, sempre e solo la qualità. Quel che si tenta di fare con gli scellerati disegni politici degli ultimi anni, da destra e da sinistra, è di abbassare il livello di competenza, sia dei musicisti che degli ascoltatori, e di rendere le orchestre né più né meno che delle bande di periferia, adatte al sollazzo di pochi e sempre più incompetenti e ignari ascoltatori.
E non è questione di fede politica, di schieramento. Gli attacchi a ciò che di più caro dovremmo avere vengono più forti anche dalla sinistra illuminata, libera. Addiruttura da un giornalista come Augias, che in prima persona si è occupato di divulgazione musicale, forse consapevole (all’epoca) che la musica sarebbe morta se gli italiani non avessero più capito la differenza tra una Traviata eseguita da una grande orchestra, con alla testa un grande direttore, e una Traviata messa su alla men peggio da un gruppo di incompetenti.
Augias, nel suo commento di mercoledì scorso a una lettera indirizzata a Repubblica,accosta i lavoratori dell’Opera di Roma ai musicanti di “Prova d’orchestra” di Fellini e auspica addirittura la chiusura dei teatri lirici in Italia (a suo dire troppi), con la conseguente riapertura di qualcuno di essi con formule e contratti nuovi, più moderni ed europei. Mi chiedo, a questo punto, dove sia il discrimine tra il “Napalm” di Facci e l’augurio di Augias. Forse solo una formale questione di eleganza, ma in sostanza il pensiero unico, quella “rottamazione” indiscriminata e incompetente che vede tutti d’accordo e che è però solo un slogan populista per distruggere fino all’ultimo briciolo la capacità di discernimento degli elettori (e dei lettori), è lo stesso.
“L’Italia sta uccidendo i propri figli. Assistiamo a genuflessioni nei confronti di chi viene da fuori, mentre i nostri talenti sono lasciati al proprio destino. Molti di questi musicisti troveranno posto in orchestre italiane ed estere: alcuni dovranno abbandonare la loro professione per cercarsi una strada diversa, poiché in Italia le orchestre, perfino le bande musicali, chiudono ogni giorno. La scuola, la politica italiana faccia qualcosa per evitare che questo Paese viva soltanto di ricordi”. Queste sono parole di Riccardo Muti. Parole che nessuno ha mai ascoltato, se non per travisarle.

Muti lascia l'opera di Roma.



domenica 21 settembre 2014

Carlo Felice-Carige, il dossier: "La banca deve al teatro 50 milioni"

Tassi di interesse del 393,65%, quando la soglia dell'usura era il 14,19%: ecco cosa avrebbe trovato, in uno dei quarantadue conti correnti che il teatro Carlo Felice ha aperto presso la Banca Carige, lo studio di periziefinanziarie Ana-tos. Non solo. Nel prospetto che il sindaco Marco Doria, anche presidente della Fondazione Carlo Felice, ha ricevuto dalla società inizialmente incaricata nell'indagare nei conti del teatro alla ricerca di interessi anatocistici (gonfiati) ci sono cifre enormi: il Carlo Felice potrebbe esigere dalla Banca Carige dai 10 ad oltre 50 milioni di euro, a seconda della strada di rientro dei denari scelta dalla Fondazione.

Il report che la società Anatos ha mostrato al sindaco Marco Doria, a maggio 2014, evidenzia percentuali continuamente superiori al tasso di usura, dal 1999 al 2005.

E questo su un solo conto corrente. Con percentuali di interessi che, rispetto a una soglia che oscilla intorno al 14%, schizzano molte volte oltre il 150%.

"Questo è un nostro parametro, le cifre di sforamento potrebbero essere parametrate con diversi indici, ma la sostanza non cambia", spiegano due periti. "Il tasso di usura è comunque stato sistematicamente enormemente superato". E non in qualche occasione. "C'è usura praticata ai danni della Fondazione Carlo Felice, emerge con chiarezza nella perizia che stiamo facendo ", lo ascoltarono in tanti il primo report della società Ana-tos, a voce, a Genova, nell'ufficio del sindaco Marco Doria a maggio scorso. Subito emerse una situazione pesantissima.

Ad ascoltare ciò che Anatos aveva cominciato a trovare c'erano, oltre al sindaco, l'attuale vicepresidente della Fondazione, Stefano Franciolini, il sovrintendente Giovanni Pacor e ovviamente i periti di Anatos. Non si parlò, dunque, da subito, soltanto di anatocismo. Che comunque, continua a rappresentare, in termini di consistenza numerica delle cifre, la voce più copiosa, almeno da quanto recita il rapporto.

Ciò che costituiva un continuo stillicidio nei confronti del teatro era soprattutto il "factoring", ovvero una pratica che permette alle banche di anticipare ai propri clienti denari che, poi, la banca tratterrà non appena il cliente stesso li riceverà da terzi sul proprio conto. Ovviamente applicando interessi.

Il contratto di factoring della Fondazione teatro Carlo Felice con la Banca Carige è del giugno 2009: è accaduto alcune volte che il teatro avesse bisogno di urgente liquidità, ad esempio tardando i denari del Fus, il fondo unico per lo spettacolo, e dovendo pagare gli stipendi ai dipendenti. Non c'era problema, c'era il contratto con Banca Carige.

Anticipava i milioni di euro, attesi ad esempio dal ministero, di alcune settimane o alcuni mesi, così la Fondazione assolveva ai propri impegni, mentre la banca applicava tassi di interesse. Che, anche in questo caso, Anatos, ha riscontrato fossero al di sopra della soglia di usura. Proprio il contratto, secondo i calcoli evidenziati dai periti, sarebbe stato impostato con la richiesta di un tasso che supera di diversi decimi la soglia di usura, ogni volta che il Carlo Felice andava in mora.

Nuove clamorose indiscrezioni sulle relazioni della consulente "Anatos" Sui 42 conti correnti praticati dall'istituto tassi di interesse sino al 400%

E, come le carte evidenzierebbero, "il teatro è andato in mora molte volte", dicono gli esperti, facendo scattare l'impennata dei tassi su cifre che comunque erano sempre molto cospicue, nell'ordine almeno delle centinaia di migliaia di euro. Ovvero, spiegano i tecnici, i soldi che il teatro aveva chiesto come anticipo alla banca e che attendeva di ricevere (dal ministero, da un ente pubblico finanziatore) entro una carta data, tardavano ad arrivare, e partiva un conto pesante di interessi.

Più aumentava il ritardo, e spesso soprattutto gli enti pubblici tardavano a versare le proprie quote di finanziamento a causa dei crescenti problemi economici, più i super-interessi galoppavano.

Non a caso in una lettera indirizzata soltanto al sindaco lo studio Anatos riassume ciò che ha trovato nelle carte, in modo informale, ma molto dettagliato, in cui si indicano precisi punti riscontrati durante l'analisi dei conti: "ricapitalizzazione trimestrale degli interessi in modo illecito", "usura contrattuale", "usura sopravvenuta".

E gli elementi su cui ha lavorato lo studio Anatos, che è l'unico in Italia ad occuparsi di questo settore, sono partiti da un incrocio di dati piuttosto complicato, tra i documenti trovati in teatro e quelli della Banca d'Italia: infatti fu proprio il sindaco Marco Doria ad autorizzare Anatos a chiedere tutte le esposizioni dal 1995 ad oggi a Bankitalia, mese per mese, del teatro Carlo Felice. Proprio l'analisi del flusso di questi dati, elaborato da specifici programmi elettronici, ha portato a far emergere, fin dal primo sguardo di Anatos nei conti del teatro, "anomalie degne di essere studiate".

A contraddire la tesi del sindaco Doria, che motiva l'allontanamento, nell'estate, dello studio Anatos e il nuovo incarico sulla questione anatocismo allo studio Afferni-Crespo, è ancora la lettera con cui lo studio Anatos ha informato il sindaco delle possibilità di rientrare dei soldi che Carige deve al teatro. E non consiglia la via giudiziaria, anzi illustra la via dell'accordo. Che porterebbe nelle tasche del teatro, immediatamente, 5 milioni di euro, e nei prossimi tre anni 500.000 euro all'anno, a titolo di sponsorizzazione.

A dare sollievo ai pesanti indebitamenti di interessi che crescevano e la Fondazione Carlo Felice non riusciva a pagare erano i cosiddetti "ripianamenti", spiegano gli esperti. Non accadeva soltanto a Genova, ma in tutti i conti, anzi in tutti i debiti che con le banche avevano molte fondazioni italiane: il ministero, a intervalli di diversi anni, e in tempi ben lontani dalla crisi attuale, interveniva per ripianare i debiti, saldandoli in parte o del tutto con denari pubblici freschi. La partita però non finiva lì. E ricominciava l'indebitamento.