venerdì 3 ottobre 2014

IL CASO RICCARDO MUTI E LA GUERRA ALL’OPERA DI ROMA

di Michelangelo Pecoraro
Una farsa annunciata, una sequela di cialtronerie, annunci fumosi, falsità e veleni più o meno motivati, ripicche e alzate di spalle. Un campionario delle peggiori schifezze che l’Italia possa vantare in campo artistico, insomma, racchiuso nella vicenda smossa in questi giorni dal pesante forfait di Riccardo Muti. E, senza eccedere in retorica, è possibile leggere in filigrana la fase storica vissuta dal Paese nelle beghe che animano politici, giornalisti e musicisti più o meno sindacalizzati attorno alle vicende del Teatro dell’Opera di Roma.
I più interessati all’argomento già hanno potuto leggere oceani di byte, formandosi una dettagliata opinione in merito. Mi rivolgo dunque, paradossalmente, data la lunghezza di questo articolo, ai meno interessati, la cui conoscenza della vicenda si basa su frammenti di articoli, spezzoni di programmi televisivi, telegiornali e sentito dire. Parlerò anche di un contesto più ampio in cui alcune prese di posizione, altrimenti incomprensibili, trovano la loro logica.
Il mondo dell’opera è da qualche anno, come altri aspetti nella vita del nostro paese, al centro di tensioni. Ci si potrebbe limitare alla natura economica dei problemi, e fra poco ne parlerò dettagliatamente, ma tale natura nasconde molteplici e complesse vicissitudini. Il casus belli, questa volta, è di quelli memorabili: il sovrintendente del Teatro dell’Opera di Roma, Carlo Fuortes, comunica alla stampa di aver ricevuto da Riccardo Muti una lettera; nel testo citato, il maestro si scrolla di dosso gli impegni – Aida e Le nozze di Figaro – assunti con il teatro per l’imminente stagione. Fuortes ricama, tra una citazione e l’altra, un florilegio di attacchi ai sindacati, rei di aver compromesso “la serenità necessaria” con una serie di scioperi culminati nella battaglia estiva di Caracalla.
Ho scritto un primo articolo, subito dopo il comunicato di Fuortes, in cui mi chiedevo se la lettera di Muti sarebbe mai stata resa pubblica. Non sono stato l’unico. Muti ha infine deciso di pubblicare la lettera sulla sua pagina facebook ufficiale. Il commento di accompagnamento inizia con le parole. “Per chiarezza, pubblichiamo integralmente la comunicazione inviata…” Eppure il baccano esegetico continua, la “chiarezza” non è giunta e il motivo è chiaro: il breve testo è un miracolo di equilibrismi in cui si può leggere di tutto. Si parla di “problematiche”, “sforzi”, “vostra causa” (di chi? del teatro? del sovrintendente? dell’orchestra?), “ultimi tempi” (un mese? due? un anno? dieci?).
Gli attori istituzionali continuano a cianciare di un possibile ritorno di Muti, una volta calmate le acque, ma è lo stesso direttore a considerare “irrevocabile” la decisione. Nella lettera precisa di volersi dedicare, «in Italia, sopratutto (sic<) ai giovani musicisti dell’Orchestra Cherubini» da lui fondata. Aggiungiamo un dettaglio non di poco conto che alcuni commentatori già hanno avuto lo spirito di far notare: la lettera è stata scritta su carta intestata della Chicago Symphony Orchestra, l’altro ente diretto da Muti da qualche anno. Chi lamentava il dualismo negli impegni del maestro ora è stato accontentato: il dilemma è sciolto e la decisione a favore dell’orchestra americana è stata presa.
È giusto addossare questo addio ai soli sindacati in agitazione all’Opera di Roma? Senza ombra di dubbio, no. Argomenti di peso remano contro un’ipotesi del genere: nonostante le minacce di sciopero, l’orchestra romana non ha MAI fatto saltare uno spettacolo del direttore, a differenza della Chicago Symphony Orchestra che, nel settembre 2012, organizzò uno sciopero improvviso due ore prima di un concerto che Muti avrebbe dovuto dirigere. E questo argomento basterebbe, contro chiunque parli di “colpa unica dei sindacati”. Un altro argomento non di poco conto riguarda il personaggio-Muti: quando il maestro vuole mandare un messaggio chiaro a qualcuno, da brava primadonna, non le manda certo a dire. Lo ha fatto in passato con diversi esponenti del mondo della politica e della musica e, negli anni scorsi, ha già smentito le ricostruzioni di giornalisti che cercavano di incolpare solo i sindacati per le tensioni all’interno del teatro romano. Facciamo un ulteriore passo e chiediamoci: a chi è che Muti ha mandato messaggi chiari, ultimamente? Alle “maggiori istituzioni”, al sindaco di Roma e al ministro Franceschini; cioè a chi sgancia i soldi.
Ecco un estratto dalle dichiarazioni che il maestro ha rilasciato a Tokyo, dove questa estate si è recato in tournée con l’Orchestra dell’Opera di Roma: «Credo che proprio l’identità italiana in Italia da parte di alcune maggiori istituzioni si stia perdendo. Il fatto che il teatro della capitale dia dimostrazioni a questo livello… credo che sia un messaggio che da Tokyo debba arrivare non solo al sindaco di Roma ma anche al ministro Franceschini. Si deve capire che nel teatro di Roma c’è un tesoro che va potenziato: non aiutato, potenziato». Un problema di soldi, dunque, e di connessa qualità artistica. Come afferma in un servizio per il programma Agoràil fagotto e controfagotto dell’orchestra romana, Fabio Morbidelli: «Muti fa spettacoli importanti, e pretende che le cose si facciano come dice lui, cioè bene. Le cose fatte bene costano. Qui in Italia i soldi per questo settore non ci sono più». Il sindaco Marino, il sovrintendente Fuortes (messo là da Marino) e il ministro Franceschini sono i primi ad aver rilasciato dichiarazioni pubbliche contro i sindacati e di “solidarietà e comprensione” verso Muti. Qualcuno, sui social network, ha ricordato con ironia e saggezza un detto popolare: la gallina che canta ha fatto l’uovo.
I sindacati sono del tutto esenti da coinvolgimento, dunque? Nemmeno. Il fatto che Muti abbia mantenuto una certa ambiguità, nella lettera di dimissioni, parla chiaro: non vuole accusare gli orchestrali, ma non vuole nemmeno discolparli pubblicamente. A un uomo concentrato principalmente sulle proprie ragioni non può di certo aver fatto piacere una così continua fibrillazione. Del resto, non avrebbe potuto attaccare esplicitamente la sua ormai ex orchestra: ha già una fama di “bacchetta dittatoriale” per le sue passate vicissitudini con la Scala, ci mancherebbero anche nuove polemiche con l’orchestra che l’ha amato al punto da farlo nominare “Direttore Onorario a vita”, carica curiosa che nell’ambiente musicale fa sogghignare più di qualcuno, e che ora gli ha inviato una lettera di amore incondizionato
A questo punto, giungono i giornalisti – l’ingrediente peggiore in un mix già esplosivo – e mi concedo una breve digressione ispirata a uno degli articoli più brutti che abbia letto sull’intera vicenda, a firma Filippo Facci.
Sono pochi gli organi informativi di questo paese a salvarsi, e quelli finanziati dalla politica, cioè la maggior parte di quelli più diffusi, sono i peggiori in assoluto: potenzialmente entità di grande importanza per garantire il pluralismo dell’informazione, all’atto pratico si riducono spesso a cassa di risonanza per i potentati del momento più o meno amici. E così è andata anche questa volta, con uno sconcertante (o indicativo, a seconda dei punti di vista) allineamento delle testate considerate “di destra” a quelle “di sinistra”. I politici, come capita, hanno sparato scemenze nel mucchio, tirando la giacchetta dei numeri e delle parole un po’ da una parte e un po’ dall’altra e mostrando di non aver capito una mazza (o di aver capito troppo bene), ma alcuni giornali e alcuni giornalisti si sono accaniti con particolare verve contro gli orchestrali sindacalizzati, appiattendosi sull’interpretazione data alla lettera di Muti da Fuortes, Marino e Franceschini. La galleria dei peggiori, oltre al già citato Facci, comprende vari pezzi di telegiornali (regionali e non), articoli su Repubblica (Francesco Merlo, Leonetta Bentivoglio e altri), sulla Stampa (dove un accanitissimo Altero Mattioli sembra avere risentimenti personali contro tre quarti degli orchestrali), sul Tempo (un Chicco Testa in grande spolvero allinea una serie di insulti senza capo né coda), sul Corriere, sul Messaggero, la puntata di Virus, trasmissione condotta da Nicola Porro, del 25 settembre (invitato da Facci),eccetera eccetera eccetera.
Negli argomenti, trovati perlopiù con l’ausilio del copiaincolla, si ripetono una serie di falsità e inesattezze. In generale, si nota la bieca abitudine di prendere episodi particolarissimi e renderli specchio della normalità, pratica già tristemente usata per altri settori come la pubblica istruzione (i casi più eclatanti di “baronie”, con cui da anni si giustificano tagli su tagli a un settore dello stato in profonda sofferenza). Vale la pena, però, citare i due argomenti più usati:
  • la panzana per cui gli orchestrali dell’Opera di Roma sarebbero “i più pagati del mondo”;
  • l’elenco delle “indennità” che percepirebbero orchestrali e coristi;
Sul gruppo facebook dell’Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma, strumento utilissimo per venire a conoscenza di dati costantemente ignorati dai principali organi di informazione, il già citato Fabio Morbidelli dichiara che con il proprio status contrattuale da “prima parte B”, con il massimo degli scatti di anzianità e comprese tutte le indennità, il proprio stipendo si aggira sui 2.200 euro al mese. E vale la pena andarle a vedere, queste indennità. Sono tre: indennità “mensa e vestiario” (non fornito dalla Fondazione che però, come in ogni orchestra, lo pretende in linea con certe prassi); indennità “spettacoli all’aperto”, nei quali, come spiega Morbidelli, gli strumenti “si deteriorano notevolmente, per questa ragione molti hanno comprato strumenti allo scopo”; indennità “strumento”, dato che gli orchestrali usano in teatro strumenti di loro proprietà dal costo di migliaia o decine di migliaia di euro, per i quali può capitare che debbano aprire mutui e che necessitano spese continue di manutenzione. Insomma, a occhio e croce pare difficile parlare degli orchestrali “più pagati del mondo”.
Ma allora perché tutto questo accanimento? Ecco l’importanza del contesto. Di cosa si parla in questi giorni su tutti gli organi d’informazione citati? Della grande battaglia in corso tra il partito dei mercati, con Renzi in prima fila a perorare l’abolizione dei reintegri sul posto di lavoro (le spoglie dell’articolo 18) per licenziamenti causati da “motivi economici” (“un’azienda deve sapere quanto spenderà se vuole andarsene”, ha detto il Presidente del Consiglio nell’ultima Direzione PD), e i sindacati che, nelle ore più buie della loro storia recente, cercano di ritrovare un minimo di compattezza (con la CGIL in prima linea che ha già messo sul piatto la minaccia di sciopero generale).
Vogliono “flessibilità”, vogliono insomma la possibilità di poter licenziare con più tranquillità, di poter lasciare le persone a casa in un periodo in cui gli affari non vanno tanto bene per poi richiamarle quando le cose ricominciano a girare, di poter contrattare il prezzo del lavoro da posizioni di forza sempre maggiori. E lo vogliono in ogni ambito. Il caso del Teatro dell’Opera di Roma, esploso proprio nel momento più critico di questo grande scontro, viene oggi usato dai giornali come exemplum: paradigma di ciò che può succedere a lasciare le cose in mano ai pericolosi e conservativi sindacati. Che può succedere? Che un direttore del talento di Muti se ne vada all’estero. Ecco perché bisogna bastonare i sindacati e i lavoratori sindacalizzati, in questo caso gli orchestrali.
Si aggiunga un altro tassello: il tentativo fatto dall’Italia, negli ultimi anni, di tagliar via parte delle proprie prerogative statali per affidarle ai privati. Nel campo della lirica passi importanti sono stati fatti con la nascita delle “fondazioni”, processo iniziato negli anni Novanta, e l’anno scorso con la legge Bray, non a caso salutata con favore dagli organi di informazione succitati, che introduce nei teatri la “meritocrazia” di gelminiana memoria: criteri quantitativi, maggior produttività, diminuzione degli stipendi (per i lavoratori semplici, non certo per i “super-tecnici” chiamati a sovraintendere queste operazioni), licenziamenti e ricollocamenti.


Qualcuno potrebbe obiettare che tutto questo non ha nulla a che vedere con il forfait di Muti, ma sbaglierebbe. Sarà un caso che abbia voluto dire la propria sulla vicenda anche l’Istituto Bruno Leoni, “idee per un libero mercato”, associazione che si autodefinisce “liberale, liberista, mercatista”?  Sarà un caso che tutto il trambusto cominciato con il forfait di un direttore finisca con l’auspicio da parte dei “soci” (Comune, Regione e Ministero) di modificare tutti i contratti per i lavoratori trasformandoli in contratti a termine? Proprio questa è la proposta fatta dal sovrintendente Fuortes, da Marino, da Zingaretti e Franceschini al termine di un colloquio tenuto l’altro giorno, le cui decisioni verranno discusse dal prossimo Cda del teatro romano, nell’assoluta chiusura al dialogo con i sindacati. Posizioni molto, molto vicine a quelle che il Presidente del Consiglio Matteo Renzi ha espresso e continua a esprimere in questo periodo.
 

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